Holy Pride?

Il 6 settembre, a Roma, da piazza Pia, è partito il primo pellegrinaggio giubilare delle associazioni cattoliche Lgbt che si è concluso con il passaggio della Porte Santa di San Pietro da parte dei partecipanti (cristiani non-straight accompagnati dai loro familiari, dagli amici e dagli operatori sociali provenienti da tutto il mondo), un migliaio poco più. Non si è trattato di un giubileo, ma di un pellegrinaggio. Infatti, l’evento era stato stato indicato come “Pellegrinaggio dell’Associazione La Tenda di Gionata e altre associazioni”. Non ho preso parte a questo evento di festa (le parole “giubilo” e “giubileo”, foneticamente simili, sono, in realtà molto diverse dal punto di vista etimologico: se la prima deriva dal latino “iubilum” – grido di gioia –, la seconda deriva dall’ebraico “yobel” – capro – perché era il corno dell’animale che veniva suonato per annunciare la festività che ricorreva ogni 50 anni del riposo della terra e della sua restituzione al proprietario originario se gli era stata portata via da uno ricco, della liberazione degli schiavi). Quindi, è la giustizia a essere l’oggetto del giubileo – un anno di grazia e di perdono, per la Chiesa Cattolica. Di giustizia riparativa, come afferma il vescovo Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, nell’omelia della messa che egli ha celebrato per i partecipanti al pellegrinaggio arcobaleno: “ci porta nel cuore del Giubileo, che é un tempo di riconciliazione e – dovremmo ormai dire – di giustizia riparativa”. Siccome – prosegue il vescovo Savino – “il Giubileo è il tempo in cui liberare gli oppressi e restituire la dignità a coloro a cui era stata negata”, è giunta “l’ora di restituire dignità a tutti, soprattutto a chi é stata negata”. Verso la conclusione della sua omelia, il vescovo precisa che: “non si cancella il passato, non si strappano i capitoli dolorosi dalla nostra vita, non si nascondono le proprie stimmate”. La giustizia, invocata dal religioso, è riparativa, non vendicativa o punitiva, e, a mio avviso, rimanda anche alla costruzione di nuovi legami fondati su un giusto riconoscimento dell’altro. Due mesi prima al pellegrinaggio lgbt, ad Amsterdam, all’interno della settimana del Pride (quest’anno era compresa tra il 26 luglio e il 3 agosto) si é tenuto anche il Religious Pride, giunto alla sua quinta edizione. Sono soprattutto voci variegate cristiane ed ebraiche ad animare il Religious Pride il cui scopo – secondo le parole del presidente del suo comitato organizzativo, pastore della Protestant Church of Amsterdam, Wielie Elhorst – è quello di “mostrare che non c’é contraddizione tra essere queer e credente”.
Al di là della dimensione fideistica, personale, e individuale, a cui questi due eventi, le due facce di una stessa moneta, rimandano, è la religiosità in senso di legame sociale a costituire il nocciolo della questione. Durkheim docet! Non solo Durkheim, però. La fede (del) queer ci rimanda alla teologia queer, la teologia indecente così come è stata definita da una delle sue prime voci, Marcella Althaus-Reid. Teologia queer che si incunea nell’alveo della teologia della liberazione; teologia queer, quindi, che si contrappone all’oppressione nei confronti delle persone non straight, non eteronormative.
Perché la giustizia sia realmente e pienamente riparativa, perché la dignità sia realmente e pienalmente restituita, occorre che la categoria teologica, o dispositivo oppressivo di controllo, del peccato quale condizione delle persone lgbt sia annullata. E le parole pronuciate dal vescovo Savino indicano, anzi, caricano la Chiesa della necessità di intraprendere questa strada. Questa strada é già stata intrapresa, ma, certamente, non è affatto conclusa. Non entro, qui, nel merito del lavoro pastorale condotto dalla Chiesa nelle sue numerosissisime ramificazioni. E non intendo soltanto la Chiesa Cattolica, ma nella sua accezione, ancora una volta, durkheimiana.
Il peccato permea ancora l’immaginario collettivo, la persona non-straigth come persona contro-natura, detto sì in soldoni ma è innegabile. Spetta alla Chiesa convertirsi e chiedere perdono, riparare, in modo assoluto, alla colpa principale: quella di condannare l’amore.


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